Tra scultura e musica,
Walter De Maria

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2008

 

 

 

Il percorso creativo di Walter De Maria permette di attraversare attitudini estetiche continuamente mobili, in grado di  metterci a contatto con le prime esperienze di Minimal Art, quindi di Fluxus, della Land Art, dell’Arte Concettuale e dell’Arte Povera. Va evidenziato, di riflesso, il merito dell’artista di rivendicare la propria libertà di spostamento all’interno dello spettro dei traguardi formali raggiunti, la quale libertà gli permette di adottare un movimento circolare sia nella scelta delle forme, che dei materiali o delle metodologie già in precedenza impiegate; frutto, questo, di un cosciente ‘continuo nomadismo comportamentistico’[^].

A questa premessa si affianca il suo interesse nei confronti della musica, testimoniato dagli intrecci che nel tempo intercorreranno tra la disciplina scultorea e quella di natura immateriale, come appunto quella musicale. Gli anni di formazione artistica nell’area di San Francisco Bay, dopo aver concluso gli studi in Storia Europea, sono caratterizzati dall’interesse per il jazz. De Maria, essendo batterista professionista, conosce in prima persona le tecniche e gli elementi tipici del genere. Prova, di conseguenza, un forte interesse per l’improvvisazione, e l’assolo di batteria in particolare, in quanto riconosce di poter isolare l’attitudine e la sensibilità del musicista, per destinarla ai temi specifici del linguaggio visuale, più precisamente attraverso esiti pittorici di derivazione gestuale.

“… music could give one so much energy, I think may be found in my work…” [>]

Se durante la fase universitaria sperimenta la bidimensionalità della pittura, negli anni successivi il suo lavoro si concentrerà maggiormente su soluzioni tridimensionali, con ricerche formali decisamente lontane dagli esordi, se non addirittura in contrapposizione, a seguito di sperimentazioni che gli hanno permesso di strutturare l’area di indagine della propria identità culturale.

Ancora la musica influenza il percorso di De Maria, quando entra in contatto con La Monte Young, che sebbene abbia studiato jazz, è ora vicino all’area della musica elettronica, oltre che all’avanguardia della musica classica. L’incontro tra i due musicisti innesca la decisione di spostarsi entrambi a New York nell’ottobre 1960, seppur con esiti diversi, ma ugualmente motivati a trovare un terreno fertile per le rispettive ricerche.

“Sounds, words, music, poetry. (Am I too specific? optimistic?) ” [*]

A questo punto sembra che linguaggi diversificati comincino ad incontrarsi in un crocevia formale e disciplinare in continua espansione. Va rilevata, inoltre, la vicinanza intellettuale con La Monte Young, e con la sua musica costituita da statici ‘drones’, ossia effetti armonici sospensivi, ottenuti dal suono prolungato di una singola nota. Tali composizioni diventano immobili, assordanti monoliti sonori, che istintivamente possiamo associare alle prime sculture di poliedri elementari, in legno compensato allo stato naturale, realizzate da De Maria a New York ed esposte nel gennaio 1963. Questa serie di opere, inoltre, presenta delle scritte a matita, che sembrano relazionarsi ad un autentico interesse per la poesia.

Attuare un simile ‘semplicismo radicale’[°] in scultura, volto all’uso di un limitato spettro di elementi per enfatizzare l’'inerzia della materia’[°], non impedisce all’autore di realizzare gli ‘Invisible Drawings’, disegni a matita su carta, pressoché evanescenti, impercettibili, visibili solo ad una distanza ravvicinata. Piuttosto che di contraddizione linguistica è più corretto parlare di ‘complementarietà’, soprattutto se si tiene in considerazione il fatto che De Maria suona nelle esibizioni musicali di La Monte Young, e percepisce allo stesso tempo sia il senso di dilatazione ed alterazione temporale dei brani, quanto la vicinanza alle filosofie orientali, nonché la relativa connessione di ordine spirituale, mistica che ne deriva. In ultima analisi si tratta di un dialogo tra due realtà ritenute aprioristicamente contrastanti, come il concetto di immanenza e di evanescenza, che diventano complementari se collocati su un piano metafisico. Questi richiami speculativi verranno in seguito sviluppati, tramite interventi formali e ambientali con chiari riferimenti simbolici.

Nel 1966 dedica un’opera all’amico musicista dal titolo ‘Instrument For La Monte Young’, consistente in una struttura scatolare metallica allungata e cava, a base rettangolare, col lato superiore aperto, contenente una sfera mobile dello stesso materiale.

Non manca anche di realizzare una scultura per il compositore John Cage, intitolata appunto ‘Cage’ (1961-65), letteralmente una gabbia in acciaio inossidabile, sinonimo di semplicità e ripetitività, quanto richiamo alla gabbia ideologica, opprimente, che scaturisce dall’estetica dell’aleatorio.

“… there will be enough range of possibilities in art to permit individual variation…” [*]

Se da un lato la collaborazione con La Monte termina, dall’altro subentra la possibilità di suonare in un contesto rock. Nella metà degli anni Sessanta entra a far parte dei Velvet Undergound, una band che unisce stili vicini alla musica giovanile, ad incursioni in area sperimentale ‘rumorista’, ne fa parte infatti John Cale, già al fianco di La Monte nel Dream Syndicate. Si tratta di un’occasione straordinaria, considerando le qualità seminali che il gruppo dimostrerà di lì a poco, eppure De Maria preferisce non continuare e abbandona il progetto.

Questa scelta sembra a prima vista illogica, eppure chiarisce molti tratti dell’artista-musicista. In dettaglio va sottolineato che in quegli anni De Maria ha già cominciato ad esporre regolarmente, ottenendo sempre maggiori consensi. La famosa mostra ‘Primary Structures’ che sancisce l’affermazione del Minimalismo, e il relativo successo, è del 1966. Si è ormai definita una precisa identità artistica che comporta inevitabilmente una certa dose di individualismo, quindi la refrattarietà ad essere circoscritta in una ‘logica di gruppo’. A sostegno di questa constatazione, si può anche ricordare l’intenzione di formare una band con Terry Riley e John Cale, ma anche in questo caso la difficile convivenza di tali personalità si è rivelata col tempo impraticabile.

Ci rimangono due testimonianze delle finalità strettamente musicali perseguite da De Maria, precisamente due registrazioni: ‘Cricket Music’ del ’64 e ‘Ocean Music’ del ’68.

Il primo è un brano della durata di circa 24 minuti, che comincia con una rullata prolungata di batteria e continua con un assolo giocato sulla ripetitività, sulla reiterazione dello stesso pattern con leggere modificazioni rispetto al canovaccio iniziale. Progressivamente si comincia ad avvertire il suono prodotto dai grilli, che naturalmente intervengono fuori tempo rispetto all’andatura regolare dell’esecuzione. Quindi, lentamente, la batteria si sposta su registri sempre più minimali e sostanzialmente percuotendo pressoché solo i piatti, finendo progressivamente col dissolversi.

Viceversa ‘Ocean Music’ si apre col rumore del mare che si infrange lungo la costa, provocando un’istintiva associazione visiva. La batteria parte con l’assolo solo oltre la metà della registrazione e rimane comunque in secondo piano rispetto alle sonorità dell’oceano, che la sovrastano. L’incedere percussivo ha qualcosa di marziale, come volesse affrontare l’asprezza, la forza dell’oceano, che comunque mantiene un volume sonoro superiore, rendendo l’interazione quantomeno impari.

Nel 1968 De Maria attraversa una fase cruciale, che lo porta a prendere una decisione drastica sul suo percorso musicale, appunto quella di interrompere il suo coinvolgimento con la musica, in quanto insoddisfatto del clima che lo circonda. Trova infatti pochi stimoli dal circuito free jazz che frequenta, perché troppo vincolato a referenti ormai sorpassati, comunque non idonei ad impostare un’operazione più personale.

In questi anni segue con interesse le esibizioni dal vivo di gruppi rock, ne apprezza lo spirito e la qualità delle performance, come nel caso di Jimi Hendrix e dei Rolling Stones, oltre che dei già citati Velvet Underground.

“The last really great performance I heard was the Rolling Stones in Europe…” [>]

Dovremmo a questo punto prendere atto del definitivo distacco dell’artista dall’impatto sonoro della musica (anche intesa come ricerca ‘rumorista’) nel suo percorso creativo, eppure va aggiunto un capitolo inedito, oltremodo emozionante. Per arrivarci dobbiamo prima soffermarci sull’ulteriore sviluppo del lavoro di De Maria: la Land Art.

Partendo dall’assunto che ‘gli stessi fenomeni naturali possono consentire degli importanti eventi artistici’ [<] gli Earth Works vedono De Maria come uno degli iniziatori dell’intervento su scala gigante. Lo spostamento dell’asse di interesse dalla metropoli ai luoghi più disparati ed isolati come deserti, laghi salati, ecc. si innesca come risposta alla necessità di allontanarsi da New York. Attorno al 1967, infatti, comincia a viaggiare e ad intervenire con sculture nelle località più sperdute e selvagge, come il deserto del Sahara. Il clima generazionale è quello dell’escapismo, della fuga dalla società tecnologica e tecnocratica per affrontare nuovi possibili tentativi di comunità, come nel caso del fenomeno ‘hippy’. Seppure l’argomento solleciti argomentazioni controverse, in questa sede ci interessa riconoscere come si  possa a posteriori riconoscere per l’epoca questo diffuso e contemporaneo ‘sentire’, anche tra artisti distanti tra loro, o all’oscuro delle esplorazioni estetiche altrui.

“What wonderful art will be produced.” [*]

Il noto intervento sul territorio di De Maria ‘Lightning Field’ (1973-79) rappresenta un incontro tra arti visive ed esperienza sonora. Strutturalmente rimanda all’opera precedente ‘Bed Of Nails’ (1968) e consiste in quattrocento aste d’acciaio lucido appuntite, collocate in una piana arida del New Mexico. La disposizione segue una precisa sequenza regolare che copre uno spazio di un chilometro per un miglio, circa. Diversi sono gli elementi che caratterizzano questa gigantesca installazione ‘permanente’, il rapporto tra regolarità geometrica e contesto ‘antigeometrico’, processualità umana ed imprevedibilità della natura, controllo esecutivo e trasformazione da parte degli elementi naturali,  cielo-terra, tecnologia-natura, immanenza-sublime, statico-esplosivo, categorizzazione-inconoscibilità, logica-magia, ecc. Ma soprattutto ci interessa sottolineare l’esperienza che si prova, nell’isolamento-straniamento tipico delle zone brulle ed inospitali, nell’assistere al susseguirsi degli effetti di luce e delle stimolazioni uditive.

Questo connubio visivo-sonoro si enfatizza con l’arrivo di temporali, che rendono i pali  veri e propri parafulmini. Nasce una complicità tra l’opera e il contesto naturale, tra la freddezza dell’acciaio e lo scatenarsi dell’agente atmosferico, tra il tratto lineare delle aste e quello irregolare, ramificato del fulmine, oppure tra la staticità, la fissità dell’intervento umano e l’inarrestabile ed incontenibile forza della folgore luminosa. Se in molti casi di Land Art il rigore progettuale e il relativo impianto geometrico tendono ad attualizzare la dicotomia tra il momento umano ed il contesto paesaggistico, in questo preciso caso la contrapposizione tenta una soluzione di reciprocità, sebbene questa avvenga solo rare volte nel corso dell’anno. Lo scultore-musicista con questa operazione estetica, dopo i grilli e l’oceano, ci consegna un brano musicale eseguito esclusivamente dalla natura stessa. Attraverso l’opera vuole solo stimolare lo scatenarsi dell’evento, ma si ritrae, poi,  per ammirare da ultimo il ‘suono dell’inconoscibile’.

“(It is hard to explain art)” [*]

Giovanni Ciucci
 

Pubblicato sulla rivista internazionale Zeta, Campanotto Editore, gennaio 2009


Note

[^] Germano Celant, ‘Arte Povera’, Gabriele Mazzotta Editore, Milano, 1969, p. 229.

[>] Walter De Maria, Oral history interview with Walter De Maria, 1972 Oct. 4, Archives of American Art, Smithsonian          Institution. Conducted by Paul Cummings

[*] Walter De Maria, ‘Art Yard’, in ‘Arte Povera’, Germano Celant, Gabriele Mazzotta Editore, Milano, 1969, p. 13.

[°] Renato Barilli, ‘Minimalismo, Land Art, Anti-Form’, in ‘Al Di Là Della Pittura’, Fratelli Fabbri Editori, Milano, Ristampa 1980.

[<] Gillo Dorfles, ‘Ultime Tendenze Nell’Arte Oggi’, G. Feltrinelli Editore, Milano, 1988, p. 155.

 

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